In questi due anni Giovaninrete ha cercato di raccontare con il suo stile quello che succede nei campi di calcio in cui si disputano le partite dei campionati giovanili dilettantistici dell’Umbria. Per quanto possibile, la nostra Testata ha dato anche voce ai protagonisti intervistando giocatori, allenatori, responsabili e così via. Ma nel calcio c’è un’altra componente fondamentale, quella rappresentata dal pubblico. A volte si parla dei “tifosi” solo quando si verificano episodi negativi (lo abbiamo fatto anche noi), ma il loro ruolo nel mondo del pallone è fondamentale, quindi quando ci sono l’educazione ed il rispetto è giusto che anche chi sta fuori dal rettangolo di gioco abbia l’opportunità di eprimere la sua opinione. Abbiamo ricevuto questa email da un nostro lettore preoccupato dall’enorme fatica che fa oggi il calcio italiano a forgiare e lanciare nuovi talenti. Ecco il testo del suo messaggio:
“Buonasera,
Scrivo questa mail appena dopo aver visto per l’ennesima volta il gol che fece Roberto Baggio a Van Der Sar in un Juventus-Brescia di qualche buon anno fa. Lancio di Pirlo di cinquanta metri, movimento di Baggio a eludere il fuorigioco e poi la meraviglia: con un solo tocco stop a seguire e dribbling sul portiere, e conseguente gol a porta vuota. Una realizzazione di una pregevolezza tecnica impressionante, un gesto così difficile reso apparentemente semplice dalla classe cristallina di uno dei migliori, se non il migliore, talento del nostro calcio.
E allora la domanda nasce spontanea: che fine hanno fatto i Baggio, i Pirlo, gli Zola, i Del Piero e i Totti dei giorni d’oggi? Possibile che un movimento come quello italiano, tradizionalmente uno dei migliori al mondo, non sia più in grado di creare profili di alto livello come i sopra citati? Apparentemente la risposta è no, e ciò diventa parvenza se si ci si confronta, impietosamente, con Germania, Francia, Inghilterra, per non parlare della Spagna. La disamina per una risposta esaustiva non è sicuramente semplice, ma credo che per lo più si debba andarla a ricercare alla radice, cioè alla gestione dei settori giovanili.
Ho due figli di 15 e 9 anni, entrambi giocano a calcio, e io da buon padre, mi divido dai campetti del piccolo a quelli del grande ogni fine settimana. Un episodio occorso ad una partita del piccolo mi ha destato non poche perplessità: l’allenatore della squadra avversaria, dopo che uno dei suoi piccoli calciatori ha perso palla e fatto subire un gol, lo ha gentilmente redarguito invitandolo a non “rischiare”. Ma se non rischiano a 9 anni, quando possono farlo? Se già da bambini s’inizia a soffocare l’emancipazione della fantasia a discapito del rigore tattico, non si rischia di perdere qualcosa?
Ho come il sentore che il guardiolismo sia arrivato a contaminare le menti degli educatori dell’attività di base, facendogli credere che hanno per le mani calciatori bramosi di risultati e non semplicemente bambini che vogliono divertirsi a giocare a calcio e sfogare la propria fantasia. Se penso al figlio grande, quindicenne, la situazione si fa ancora più complessa: abito in Umbria, dove qualche mente illuminata ha ben pensato di creare campionati di under 15 (ma anche U17 e U19) con promozioni e retrocessioni, focalizzando così tutta l’attività su un unico obbiettivo: il risultato.
Con l’under 19 potrei anche accettarlo, ma con ragazzi di 15 anni no, per un semplice motivo: a quell’età hai una disparità fisica molto marcata, qualcuno è ancora bambino, altri sono già adulti, e giocoforza che quest’ultimi diano più garanzia dei primi per conquistare la posta in palio. Le società dovrebbero invece concentrare i propri sforzi per formare ragazzi che, a quindici anni, sono tutto fuorché calciatori, e il risultato dovrebbe assumere solo una mera valutazione statistica, altrimenti il rischio di perdere qualche talento che ha solo la sfortuna di avere uno sviluppo tardivo si fa molto alto.
E se questo ragionamento lo si applica ai settori giovanili delle società professionistiche la matassa s’ingarbuglia ulteriormente. Ci sarebbe poi la parentesi sugli allenatori, i dirigenti e i selezionatori, i quali dovrebbero capire che la bontà del proprio operato non è direttamente proporzionale al risultato conseguito, almeno non nel breve termine.
Sono consapevole che questa mia riflessione sia ampiamente opinabile e che la questione possa assumere le più diverse sfaccettature a seconda della prospettiva da cui la si osservi, su una cosa però sono sicuro ed è che “da quando Baggio non gioca più, non è più domenica”…
Grazie”
Queste sono le parole del nostro lettore (che ha firmato la sua lettera): voi cosa ne pensate? Scrivete nei commenti qual è la vostra opinione su questo argomento: lo scambio di idee, se fatto con educazione e rispetto, è sempre un’ottima cosa!